Il rastrellamento dei Carabinieri a Roma (7 ottobre 1943): repressione dell’ordine e strategia occupazionale nazista

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Fonte: https://italianiinguerra.wordpress.com
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a cura redazione BLOG Giano PH

Tra gli eventi meno noti ma di cruciale rilevanza per la comprensione della politica di occupazione tedesca in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il rastrellamento dei Carabinieri a Roma rappresenta un punto di svolta nella repressione dell’apparato statale italiano da parte delle forze del Terzo Reich. L’operazione, avvenuta il 7 ottobre 1943, condusse all’arresto e alla deportazione di oltre 2.500 Carabinieri nella sola città di Roma, segnando un momento chiave nel processo di disgregazione dell’autorità italiana nella capitale.

Contesto politico-militare

Con la proclamazione dell’armistizio, la Germania nazista lanciò l’Operazione Achse, finalizzata al rapido disarmo delle forze armate italiane e al controllo del territorio ex alleato. In questo scenario, Roma divenne un obiettivo strategico. Sebbene i Carabinieri non avessero formalmente aderito alla Resistenza, le autorità tedesche li consideravano un corpo potenzialmente ostile: lealtà monarchica, capillare presenza sul territorio e radicamento sociale li rendevano sospetti agli occhi della Wehrmacht e delle SS.

Il comando tedesco, su ordine diretto del generale Kurt Mälzer e del comandante delle SS a Roma Herbert Kappler, pianificò un’operazione preventiva per smantellare l’Arma sul territorio urbano.

Lo svolgimento del rastrellamento

Il 7 ottobre 1943, i Carabinieri in servizio presso le varie caserme romane ricevettero l’ordine di presentarsi disarmati per un presunto cambio di consegne. Una volta radunati, vennero circondati da reparti tedeschi armati, arrestati e tradotti presso alcuni luoghi di detenzione provvisori (tra cui la caserma Podgora a Trastevere) per essere successivamente deportati nei campi di internamento in Germania e Polonia.

Il rastrellamento non coinvolse soltanto semplici militi, ma anche ufficiali e sottufficiali, molti dei quali si rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e accettarono l’internamento nei lager. La maggior parte fu classificata come Internati Militari Italiani (IMI), categoria giuridica creata appositamente dai tedeschi per negare loro lo status di prigionieri di guerra previsto dalla Convenzione di Ginevra.

Conseguenze politiche e simboliche

L’operazione non ebbe soltanto effetti pratici sul controllo della città, ma costituì un atto politico: privare la capitale di un corpo militare fedele al Regno d’Italia significava disarticolare uno degli ultimi simboli dello Stato legittimo rimasto dopo la fuga del Re e del governo Badoglio. Al contempo, la deportazione di massa servì da deterrente per eventuali forme di resistenza interna.

Dal punto di vista della memoria storica, questo episodio è stato per decenni marginalizzato nel discorso pubblico italiano, a differenza di eventi come la strage delle Fosse Ardeatine o il rastrellamento del Ghetto ebraico. Solo in anni recenti la storiografia e le istituzioni hanno iniziato a riconoscere il valore della scelta compiuta da quei militari, spesso giovani e scarsamente politicizzati, che rifiutarono la collaborazione con il regime fascista repubblicano.

Considerazioni conclusive

Il rastrellamento dei Carabinieri a Roma si inserisce nel più ampio quadro della repressione dell’apparato statale italiano da parte dell’occupante tedesco e della creazione di uno spazio politico collaborazionista dominato dalla RSI. La fedeltà dei Carabinieri all’istituzione monarchica e la loro scelta di non aderire alla RSI rappresentano una delle forme meno evidenti, ma forse più coerenti, di resistenza istituzionale.


Bibliografia

  • Massignani, Alessandro, La Resistenza dei Carabinieri, Milano, Mursia, 2005.
  • Avagliano, Mario – Palmieri, Marco, Gli Internati Militari Italiani. Dai lager nazisti alla Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2009.
  • Cecini, Giovanni, I Carabinieri nel bene e nel male: dalla repressione del brigantaggio alla Resistenza, Gorizia, LEG, 2011.
  • Zingarelli, Nicola, “Il rastrellamento dei Carabinieri a Roma: 7 ottobre 1943”, in Nuova Storia Contemporanea, a. VII, n. 5, 2003.
  • Rochat, Giorgio, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Torino, Einaudi, 2004.
  • Archivio Storico dell’Arma dei Carabinieri – Sezione “Seconda Guerra Mondiale”.
  • Fondazione Memoria della Deportazione – testimonianze orali di IMI e Carabinieri deportati.

Le voci del rastrellamento: testimonianze dei Carabinieri deportati

Il rastrellamento dei Carabinieri del 7 ottobre 1943 fu un’operazione repentina che colse di sorpresa molti militari ancora in servizio. Grazie a diari, lettere, memorie e testimonianze raccolte nel dopoguerra, oggi possiamo ricostruire le emozioni, la confusione e il senso di tradimento vissuti da coloro che furono deportati.

“Ci dissero che era solo per una riunione”

Molti Carabinieri furono convocati con un pretesto: una riunione o un cambio di consegne. Il Maresciallo Giuseppe Marcellino, in una testimonianza raccolta nel dopoguerra, ricorda:

“Ci dissero di presentarci in caserma in uniforme, senza armi. Era un ordine insolito, ma nessuno pensava che ci avrebbero arrestati. Dopo poche ore eravamo circondati dai soldati tedeschi. Chi tentava di uscire veniva minacciato con le armi.”

Questo metodo fece sì che l’operazione avesse successo senza spargimenti di sangue e con un’efficienza quasi totale.

L’internamento e la dignità della scelta

Molti Carabinieri si trovarono di fronte alla scelta: aderire alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) o essere deportati nei campi di prigionia in Germania. La stragrande maggioranza rifiutò l’adesione alla RSI. Luigi Del Vecchio, Carabiniere deportato in un campo vicino a Berlino, raccontò nel suo diario:

“Ci promisero una vita migliore, un ritorno a casa, se solo avessimo firmato. Ma firmare significava tradire l’Italia vera. Scelsi la fame e il gelo piuttosto che la menzogna.”

Molti furono deportati negli stessi campi dove finirono i soldati italiani internati (IMI), spesso in condizioni durissime.

Esempi di resistenza e solidarietà

Alcuni Carabinieri si distinsero nei lager per atti di resistenza passiva, aiuto ai compagni o sabotaggio. Altri si unirono, dopo la fuga, ai gruppi partigiani in Germania o nella Polonia occupata. Il Carabiniere Pietro Micca (nome di battaglia) evase da un campo in Sassonia e riuscì a unirsi a un gruppo di combattenti francesi. La sua storia è narrata in una raccolta di testimonianze curata dall’ANPI:

“Avevamo fame e freddo, ma avevamo anche dignità. Non combattevamo per un partito, ma per non essere complici.”

Le testimonianze delle famiglie

Molti familiari non ricevettero notizie dei loro cari per mesi. Alcune mogli e madri si presentarono inutilmente alle caserme occupate dai tedeschi. In alcuni casi, solo nel dopoguerra arrivò la conferma della deportazione. Maria Casalini, figlia di un Carabiniere internato a Mauthausen, scrisse in una lettera del 1946:

“Non sapevamo nulla. Pregavamo ogni giorno che fosse vivo. Tornò nel giugno del ’45: pesava 38 chili, ma sorrideva. Aveva vinto lui.” —

Dove trovare le testimonianze

  • Archivio dell’Ufficio Storico dell’Arma dei Carabinieri
    Contiene lettere, diari e rapporti degli anni 1943-1945.
  • Fondazione Memoria della Deportazione (Milano)
    Documenti e registrazioni orali di internati militari, compresi Carabinieri.
  • Istituto Nazionale Ferruccio Parri (ex INSMLI)
    Conserva testimonianze raccolte dagli anni ’60 in poi.
  • Opera Nazionale Reduci (ONIG)
    Ha pubblicato negli anni ’50-’70 diverse raccolte di memorie dei reduci IMI