Il caso Moro e la volontà di sapere

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di Emanuele Federici

Il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro rappresentano un evento spartiacque della storia italiana più recente. Chi visse in prima persona quell’evento ricorda dove si trovava e cosa stesse facendo, come accadrà poi per la generazione successiva nel caso delle Torri Gemelle. Ogni anno vengono pubblicati libri, articoli, canzoni, podcast e film sul tema che riescono a raggiungere migliaia di cittadini interessati ad approfondire, a “scoprire qualcosa di nuovo”. Ed è proprio quest’ultimo il punto focale di tutto ciò, ossia il fatto che migliaia di persone vogliano sapere una volta per tutte cosa sia successo a via Fani e nei successivi 55 giorni, facendo sparire una volta per tutte le ombre che da ormai troppi anni circondano questo evento. Ma chi nasconde questa verità? Per la maggior parte delle persone il principale autore di quest’operazione di occultamento è lo Stato, ritenuto colpevole di aver fatto morire Moro, volente o nolente. Ma è davvero così semplice? Ci fu veramente un complotto da parte dello Stato per sbarazzarsi di uno dei suoi esponenti più “scomodi”? A mio avviso la spiegazione è più complessa.

Innanzitutto bisogna sottolineare come durante il sequestro Moro si scontrarono due visioni riguardo la ragion di Stato differenti. Queste due visioni si erano in realtà delineate già qualche anno prima, nel 1974, quando fu rapito dalle Br il magistrato genovese Sossi; in quel frangente si presentano due visioni contrapposte per gestire il sequestro: per Aldo Moro la priorità per lo Stato deve essere quella di proteggere i propri cittadini, mentre per l’allora Ministro degli Interni Taviani la priorità è quella di mantenere il monopolio della violenza, ragion per cui non si può scendere a patti con chi la violenza la esercita in modo illegittimo. Queste due concezioni si amplificano durante il sequestro Moro, quando lo Stato porta avanti la linea delineata in precedenza da Taviani, adottando la linea della fermezza, mentre Moro porta avanti con fervore la sua visione soprattutto attraverso le lettere fatte recapitare dal carcere del popolo. Lo Stato era convinto che scendendo a compromessi sotto la luce del sole con le Br si sarebbe messa a rischio la tenuta del regime democratico italiano. Ciò non significa che non si cercò di trattare, ma ciò era possibile farlo solo in segreto; si pensi per esempio alla trattativa intrapresa dal Vaticano di un riscatto in denaro, caldeggiata da alcuni leader politici al governo come Giulio Andreotti.

Poi vi era il contesto storico, caratterizzato dal clima della Guerra Fredda. L’Italia è parte del blocco occidentale, a guida USA, e da anni gli Stati Uniti, e non solo, facevano sentire la propria voce su questioni di politica interna, come sul compromesso storico. Lo stesso Moro nei mesi precedenti al suo sequestro fu minacciato più o meno direttamente dal Segretario di Stato Henry Kissinger se avesse continuato a portare avanti la sua linea politica “dell’attenzione” verso il PCI. Anche durante i 55 giorni gli USA erano presenti sul territorio italiano, con la partecipazione del criminologo Steve Pieczenik all’interno del comitato anti-crisi istituito da Cossiga per gestire la situazione; le parole pronunciate negli anni successivi dal consulente americano hanno suscitato non poche polemiche, dal momento che arrivò a pronunciare frasi come:

«La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto difficile, soprattutto per lui. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa».1

Lo stesso Cossiga non si impegnò a smentire queste parole, affermando al contrario come egli fosse consapevole che la linea della fermezza avrebbe portato inevitabilmente alla morte del suo compagno di partito:

«Quando io dico che ho concorso ad ammazzarlo è vero. Non sono un assassino, ma a differenza di altri io sapevo benissimo che la linea della fermezza, salvo un miracolo, avrebbe portato alla sua morte».2

Ma perché si decise di non trattare con le Br? Oltre alla questione della ragion di Stato esplicata in precedenza vi erano altri motivi che spingevano la DC e il PCI a compiere tale scelta. La DC aveva un problema soprattutto alla sua destra dove vi erano partiti, come l’MSI di Almirante, che spingevano affinché si adottassero misure straordinarie per gestire quella situazione, ad esempio l’introduzione della pena di morte e l’utilizzo del codice penale militare. Il problema era che anche in alcuni apparati del Ministero degli Interni e dell’Esercito vi fossero pressioni analoghe, col rischio che questi si sarebbero sentiti legittimati ad una svolta autoritaria nel caso lo Stato avesse deciso di trattare con le Br. Invece il PCI aveva un duplice problema, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra; a destra aveva la DC alla quale si era avvicinato negli anni precedenti, ma vi erano in quest’ultimo partito ancora molte riserve riguardo i comunisti, che se avessero aperto ad una trattativa con i brigatisti sarebbero stati bollati come “rivoluzionari amici delle Br”. Inoltre proprio durante i giorni del sequestro arrivarono critiche al PCI riguardo il fatto che negli anni avesse promosso un tipo di cultura che aveva favorito lo sviluppo del terrorismo rosso; ad esempio Rossana Rossanda, intellettuale dell’area de Il Manifesto, parlò di “album di famiglia” del PCI leggendo i comunicati delle Br, notando come lo stile e la cultura fosse fondamentalmente la stessa, con le Brigate rosse che avevano occupato uno spazio politico lasciato vuoto proprio dal Partito Comunista da quando aveva iniziato la strategia del compromesso storico. Il secondo problema del PCI era invece alla sua sinistra, ossia alla base del partito, dove vi era la presenza di molti militanti che guardavano con simpatia verso i brigatisti, chiamati i “compagni che sbagliano”, di cui si condannava il metodo terroristico ma non l’ideologia alla base. Il PCI cercava in quel periodo di mostrarsi pubblicamente come forza rispettabile e democratica che aveva accantonato la strategia rivoluzionaria, non erano dunque possibili fraintendimenti riguardo i propri rapporti con l’area che si trovava alla sua sinistra da cui bisognava prendere le distanze. Le parole del segretario della CGIL Luciano Lama durante la manifestazione a Roma proprio del 16 marzo si inscrivono a pieno in questo contesto, con la necessità del partito di condannare le Br senza riserve:

«Compagne e compagni, amici, cittadini di Roma, siamo di fronte oggi, come hanno detto i compagni e gli amici che mi hanno preceduto, ad un delitto feroce, esecrando: il rapimento dell’on. Moro, l’uccisione di cinque lavoratori della polizia, carabinieri ed agenti, sono l’ennesima, sciagurata tappa di una scalata criminale che vuole portare alla distruzione dello Stato democratico, alla distruzione di quello Stato che con la lotta del nostro popolo abbiamo costruito con la guerra di Liberazione nazionale. […] Dobbiamo opporre alla violenza disumana la forza della ragione, la determinata volontà di non piegarci al ricatto degli assassini, dei nemici della democrazia e della libertà del nostro Paese. Si parla di guerra civile. […] Siamo di fronte ad un pugno di terroristi che si accanisce contro le istituzioni e le libertà nostre, siamo di fronte ad un piccolo gruppo di assassini che attenta alle istituzioni della democrazia italiana. […] Non è questo tempo di stare a guardare, amici di Roma. […] Dobbiamo espellere dal seno delle masse, dobbiamo espellere, ripeto, non i terroristi che non ci sono o sono pochissimi, ma chi li giustifica, chi civetta con loro, chi li considera ancora troppo frequentemente come dei ragazzi che forse avrebbero anche ragione in altre condizioni».3

Nel frattempo Moro dal suo covo-prigione cerca di smuovere la classe politica affinché si scendesse a patti con le Brigate rosse. Egli fa riferimento ad altri casi passati in cui tale trattativa vi fosse stata, come nel caso dei guerriglieri palestinesi, senza che vi siano state ripercussioni sull’assetto democratico del paese. Ma in questo caso è diverso. Anche in futuro si tratterà in casi simili, come per Ciro Cirillo, ma Moro è un personaggio diverso, è l’uomo politico più importante del paese, quasi sicuramente il prossimo Presidente della Repubblica, perciò non sussistono paragoni. Si cerca di negare la lucidità delle parole di Moro dalla prigionia, con i mass media compatti che parlano di sindrome di Stoccolma o parole estorte sotto tortura o utilizzo di droghe4. Si cercava allo stesso tempo di sminuire il valore dell’ostaggio e il peso della sua proposta politica. Vi furono alcuni tentativi, soprattutto a partire dal 20 aprile, di smuovere questo immobilismo, in particolare da parte del PSI di Craxi, ma non fecero altro che irrigidire la posizione di DC e PCI.

Alla fine ogni tentativo risultò vano e Moro fu ucciso crivellato da 12 colpi il 9 maggio 1978. Per il paese è uno shock totale. Tutti i giornali e i tg diffondono le tragiche immagini del cadavere dello statista pugliese nel bagagliaio della Renault 4 in via Caetani. Lo Stato è ufficialmente sotto accusa popolare. Il paese si stringe attorno ai familiari del defunto, manifestando la propria solidarietà e il proprio cordoglio attraverso un fiume di lettere che in quei giorni arriva a casa Moro. Ma dopo il dolore arriva la rabbia. Rabbia verso uno Stato che, volente o nolente, ha lasciato morire uno dei propri esponenti più celebri. La rabbia si amplifica quando lo Stato inizia a trattare con le Br, a differenza di quanto avvenne nei 55 giorni, per ottenere informazioni preziose riguardo la lotta armata in Italia, concedendo in cambio degli sconti di pena. Frutto di questa trattativa è secondo l’ultima commissione di inchiesta Moro-2 una “verità dicibile”, per utilizzare le parole di Giuseppe Fioroni, Presidente di quella commissione; lo Stato e le Br hanno raggiunto una verità di comodo che accontenta entrambi gli schieramenti in gioco. La volontà popolare di sapere ha prodotto però anche un effetto collaterale, ossia la diffusione di teorie dietrologiche, soprattutto a partire dagli anni ’90 con la diffusione di internet, che gettano ancora di più fumo sulla vicenda, non aiutando a raggiungere una verità definitiva. Non bisogna cadere nell’errore di credere che non si sappia nulla, o al contrario che sia inutile continuare a indagare in quanto si sappia tutto, sul tema, ma è necessario continuare a fare ricerca secondo il metodo storiografico delle fonti, qualsiasi esse siano, non cedendo a ipotesi troppo frettolose o sensazionalistiche.

La memoria di Aldo Moro è ancora viva nella coscienza di milioni di italiani, molti dei quali ricordano le sue parole come se fossero state una profezia: “il mio sangue ricadrà su di loro”. E la profezia sembra essersi avverata negli anni successivi, quando i partiti che maggiormente portarono avanti la linea della fermezza crollarono uno dopo l’altro sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Finiva la prima Repubblica ed iniziava la seconda, non con meno insidie ma con la speranza che la vicenda di Moro possa, prima o poi, trovare la sua serenità.


Emanuele Federici, Dottore in Scienze Storiche con una tesi di laurea dal titolo “L’enigma Moro. Ricostruzione del caso Moro sulla base della Commissione parlamentare d’inchiesta del 2017”.


Bibliografia

  • Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2005;
  • Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016;
  • Gotor, Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica, Roma, PaperFIRST, 2019.

Sitografia (ultima visita 11 aprile 2024)


Podcast correlato
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Filmografia
Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, 1986. Dur. 1:52:49 col.

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