Giarre: lo specchio di una società

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di Emanuele Federici

Giarre, Sicilia, a metà strada tra Catania e Taormina, 1980. Due ragazzi, Giorgio e Antonio, vengono trovati uccisi, mano nella mano, da un colpo di pistola alla testa ciascuno. I due giovani avevano una sola colpa: essere omosessuali in una società̀ che non li voleva. A Giarre c’è un profumatissimo agrumeto; la mattina del 31 ottobre 1980 un pastore si aggira per quei campi mentre controlla il suo gregge, fino a quando la sua attenzione viene attirata da un odore acre. Si avvicina verso un pino e scopre da dove derivasse quell’odore: due cadaveri. Sono i cadaveri di Giorgio Agatino Giammona, di 25 anni, e Antonio Galatola, di 15 anni. Quando giunge la notizia nella cittadina siciliana le persone si ricordano dei due giovani; Giorgio e Antonio venivano chiamato “’i ziti”, che in dialetto siciliano significa “i fidanzati”. Il loro amore era contrassegnato dal marchio dell’infamia a Giarre, dove l’omosessualità non era cosa ben gradita. I “puppi”, come venivano chiamati gli omosessuali in Sicilia, erano una ferita nell’orgoglio cittadino. Giorgio veniva chiamato in città “puppo co ‘o bullu”, ossia gay col timbro, in quanto all’età di 16 anni era stato scoperto, e dunque denunciato, dai carabinieri mentre era in macchina con un altro ragazzo. Non doveva essere facile la vita per Giorgio a Giarre, dove subiva continue vessazioni e grida di scherno tra le strade del paese. Ma Giorgio non voleva nascondersi, era fiero della sua sessualità, anticipando non di poco i tempi sociali e culturali. Nemmeno Antonio, detto “Toni”, aveva voglia di rinunciare alla relazione con Giorgio, facendosi scudo a vicenda di fronte alle infamie e gli spergiuri che la gente riserva loro. I due erano spariti da due settimane. In città si dice che fossero fuggiti per vivere liberamente il loro amore, non possibile in una città oppressiva come Giarre. Ma non era così. Giorgio e “Toni” erano stati uccisi e i loro cadaveri poggiavano avvinghiati sotto il pino nell’agrumeto. La pistola viene trovata vicino ai corpi, sottoterra. Oltre alla pistola si trova anche un bigliettino con le ultime parole degli “ziti”: «La nostra vita è legata alle dicerie della gente. Non possiamo più vivere». Ma fin da subito gli inquirenti sembrano avere più di qualche dubbio sull’autenticità del testo; non era plausibile che uno dei due abbia sparato all’altro per poi suicidarsi, visto che la pistola si trovava più avanti e, soprattutto, sotterrata. L’ipotesi del suicidio crolla subito. Pochi giorni dopo si celebrano i funerali. Al funerale di Antonio partecipano circa 2000 persone, mentre a quello di Giorgio non va quasi nessuno, per timore di essere associati all’immagine scandalosa del “puppo co ‘o bullu”. In città arrivano giornalisti da ogni parte d’Italia, costretti a scontrarsi con l’omertà del paese. «Che vergogna. Penseranno a Giarre come al paese dei finocchi» si sente dire spesso in città. Anche i familiari cercano di convincere i giornalisti che i due non fossero omosessuali, ma che appunto fossero solo dicerie; mentre la sorella di Toni afferma «Toni omosessuale? Sono la sorella, me ne sarei accorta. E le pare che se lo fosse stato avrei portato i miei carusi (i figli) in casa sua?», il padre di Giorgio dice ai giornalisti di “La Repubblica” «Giorgio era un buon ragazzo, un po’ ritardato, forse. È per questo che si accompagnava ai ragazzi più giovani. Perché era un po’ infantile». Antonio Assennato, il pretore della città, aggiunge alle parole di quei giorni:

«Ci sono leggi di natura e non si può pretendere che sia naturale ciò che naturale non è. Come uno storpio. Insomma, che cosa si vuole, che si dia loro un premio? O che si facciano le cose che fanno loro per non farli sentire isolati? No, Giarre non li ha uccisi. Certo, ora c’è da salvare il buon nome della città».

Ed è proprio quest’ultimo il punto: Giarre vuole difendere la sua reputazione, macchiata dalla “devianza” omosessuale. Il 3 novembre il giovanissimo, appena dodicenne, nipote di Antonio, Francesco Messina, confessa di aver ucciso i due amanti. Erano stati loro a chiederglielo, dice Francesco, per porre fine alle loro sofferenze: «O ci spari tu o ti spariamo noi» gli avrebbero intimato. Ma il giorno dopo cambia la versione, affermando di aver detto ciò sotto minaccia dei carabinieri: «Ai carabinieri ho detto bugie. Perchè loro mi minacciavano. Dicevano: “se non parli arrestiamo tuo nonno”». Ma il caso per gli inquirenti è chiuso. Ad uccidere i “puppi” è stato Francesco Messina, non imputabile in quanto minorenne. Non si doveva parlare più del fatto per non macchiare ulteriormente la città di vergogna. Dopo 20 giorni, nessuno parlava più di Giorgio e Toni. A distanza di anni l’ipotesi più probabile, non verificata dalla Magistratura in quanto come scritto sopra il caso si chiuse in fretta e furia, è che Francesco, scelto in quanto non imputabile per la sua giovane età, sia stato obbligato da alcuni familiari delle due vittime che volevano scrollarsi di dosso il disonore provocato dalla relazione tra i due giovani. Questo delitto rispecchia a pieno la società italiana dell’epoca, chiusa tra un clericalismo ossessivo e una morale machista. Antonio e Giorgio sono vittime di questa società che i “ricchioni” non li può, o vuole, accettare. Come affermò ai giornali un cittadino di Giarre in quei giorni: «Un fatto di omosessualità qui in Sicilia è qualcosa di tremendo».


Emanuele Federici, Dottore in Scienze Storiche con una tesi di laurea dal titolo “L’enigma Moro. Ricostruzione del caso Moro sulla base della Commissione parlamentare d’inchiesta del 2017”.


Bibliografia

  • F. Grillini, L. Maragnani, Ecce omo. 25 anni di rivoluzione gentile, Milano, Rizzoli, 2008;
  • B. Amenta, V. Amenta, Per sempre amore, Roma, Libreria Croce, 2012;
  • M. Mennini, Credenti LGBT+. Diritti, fede e Chiese cristiane nell’Italia

Sitografia


Filmografia

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